martedì 6 giugno 2023

Il jazz è difficile. "È difficile fare bene qualsiasi cosa ma è altrettanto facile renderci la vita semplice se si è in grado di uscire dai binari della paura del nuovo e del luogo comune".


Visto che finora ci siamo occupati di jazz (ma prossimamente spazieremo) vorrei postare un pezzo scritto da Paolo Fresu tratto dal volume "Il pregiudizio universale: un catalogo d'autore di pregiudizi e luoghi comuni", uscito nel 2016. Il volume è interessante non solo per il pezzo in questione, ma anche perché ci sono vari autori che cercano di sfatare i tanti pregiudizi che accompagnano la nostra vita, tutte quelle cose che ognuno di noi crede di sapere non sulla base di una vera informazione, ma di una percezione più o meno passivamente condivisa.  

Ma a noi interessa il jazz, quindi ecco il pezzo, secondo me molto bello, ma da Paolo Fresu non mi aspettavo di meno: 

"Si potrebbe dire che il jazz è difficile come sono difficili tutte le cose belle e importanti in quanto queste richiedono passione, tempo, dedizione e conoscenza. Di certo è difficile apprenderlo e suonarlo. Perché non ha una partitura scritta ma un canovaccio che, partendo da una melodia e da una griglia armonica, si evolve grazie all'improvvisazione che richiede immaginazione e creatività. E l'improvvisazione, a dispetto della parola, non si inventa e anzi si struttura in modo rigoroso e si apprende attraverso un metodo e un percorso che, a volte, può essere lungo e articolato.

S’inizia dagli ascolti sui dischi per arrivare a trasferire il linguaggio su uno strumento musicale. Partendo da Bix Beiderbecke e Louis Armstrong e navigando fino al contemporaneo è possibile percepire tutte le novità di un Novecento grazie alla quali il jazz è nato e si è evoluto con la velocità del secolo appena trascorso. Jazz che racconta e fotografa un secolo complesso ma affascinante. Fatto di scoperte e di conquiste. Di lotte razziali nonché di incontri e di scontri tra razze e geografie. È un linguaggio che in alcuni momenti è stato ostico e dissonante quanto lo sono stati i suoni delle grandi metropoli americane come Chicago o New York negli anni Quaranta e quanto lo è stato quel manifesto del free jazz inventato da uno strano signore californiano che era Ornette Coleman, con un bizzarro sax bianco, un violino, una tromba e una serie di giacche dai colori sgargianti.

La complessità del jazz dunque è intrinseca nell’urgenza espressiva del racconto che lo giustifica. Un racconto duro e a volte violento quello degli anni Quaranta e Cinquanta, quando questo doveva esprimere lo stato d’animo dei neri sopraffatti dai bianchi e l’evoluzione di una civiltà industriale che cresceva a ritmi vertiginosi. La stessa che ha dato vita a questa musica e dove il primo disco di jazz è stato registrato da Nick La Rocca, un bianco proveniente da una famiglia di Salaparuta, piccolo paese della Sicilia. La migrazione dei pensieri che passa da Ellis Island e che approda ai suoni meticciati dei bianchi provenienti dall’Europa e dei neri dall’Africa tribale.

Se il jazz è difficile dunque è perché ha raccontato la storia di un secolo altrettanto difficile e complesso testimoniandone l’evoluzione, le lotte e le passioni. Lotte e passioni che erano degli afroamericani del sud dell’America e del blues, la loro lingua. Non è stato difficile per loro raccontarsi con una chitarra salendo sui treni verso le città della speranza, ma invece è stato semplice salire sui palchi delle sale da ballo dell’era swing prima e su quelli dei jazz club newyorkesi dopo. Facile essere star sulla 52nd Street e difficile entrare dalla porta principale quando i neri, anche Charlie Parker e Miles Davis, dovevano entrare dalle cucine.

Il jazz diviene facile quando è nelle. mani di artisti geniali come Duke Ellington, Charlie Mingus o Bill Evans. Perché il loro immaginario è stato così ricco da avere generato una musica nuova spessa quanto la loro vita. Una vita spesso difficile e maledetta per un linguaggio che in poco tempo ha rivoluzionato tutta la cultura musicale del secolo scorso influenzando i compositori della musica classica e flirtando con il rock, il pop e le musiche del mondo. Il jazz è facile perché spugnoso e altrettanto facilmente capace di tendere la mano alle altre musiche con una capacità di ascolto, di interazione e integrazione che difficilmente posseggono gli altri idiomi. È questa curiosità e apertura che ne fa un linguaggio indefinibile e difficilmente riconducibile a un unico stile. Stili diversi e suoni diversi per altrettanti momenti storici ed estetici che fanno di questa parola di sole quattro lettere (pare sia impossibile risalire all’origine etimologica) un vasto mondo nel quale ognuno di noi può trovare ciò che ama e ciò che lo affascina.

E se è ostico il free jazz in quanto musica di rottura è altrettanto facile lo swing o un certo jazz vocale che viene dal grande repertorio americano dei songbook di Broadway o delle musiche per il cinema compresi i brani per i bambini. Due fra tutti: My Favorite Things e Someday My Prince Will Come grazie alle interpretazioni memorabili di John Coltrane e Miles Davis. E se questi grandi improvvisatori hanno riproposto temi popolari alterandone le strutture armoniche e a volte modificandone il beat, in altre occasioni hanno suonato o cantato melodie che oggi appartengono al mondo come What a Wonderful World grazie alla voce roca e inconfondibile di “Satchmo” o Summertime di George Gershwin magistralmente interpretata da Ella Fitzgerald o da Davis in quella splendida partitura vestita per lui da Gil Evans, arrangiatore bianco che negli anni Ottanta incontrò Sting sul palco di Umbria Jazz.

Ed è proprio Miles, il “Principe delle tenebre”, a dimostrare quanto il jazz sia facile andando incontro al pubblico con la rielaborazione di melodie provenienti dal pop e dal rock di Cindy Lauper, Michael Jackson o i Toto.

Ha una lunga storia questa musica. Una storia affascinante che solo se vissuta e ricostruita pazientemente rende l’idea di ciò che è stata e di ciò che oggi porta in dote verso il futuro per la sua vocazione antonomastica alla metamorfosi. Era la musica del popolo ai primi del Novecento e oggi ritrova quella matrice popolare di cento anni fa grazie anche agli artisti italiani che sposano il jazz con la canzone napoletana, l’opera o il Mediterraneo. Puccini diventa un nuovo Cole Porter e un ballo sardo è il pretesto per unire mondi solo apparentemente distanti. Ecco perché il jazz è facile nonostante possa sembrare difficile. Perché basta conoscerlo per apprezzarne le sue diversità scoprendo che c’è n’è uno per ogni gusto e che questo supera le mode e diventa una passione emozionante che ci fa ridere e piangere, battere il piede a tempo, schioccare le dita o barcollare al ritmo dello swing. Cosa c’è di più naturale e di più semplice che il lasciarsi andare al ritmo del corpo? È difficile fare bene qualsiasi cosa ma è altrettanto facile renderci la vita semplice se si è in grado di uscire dai binari della paura del nuovo e del luogo comune".